Non lo direste mai, ma la lingua morta più famosa che ha terrorizzato gli studenti liceali dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente ad oggi si rivela, per certi aspetti, la lingua più adatta a chattare sui social network. Scordatevi il “Brutus” di Cicerone e la “Medea” di Seneca! Non leggetele nemmeno in formato PDF perché se oggi Lucano, Tertulliano e Svetonio fossero qua potrebbero diventare vostri follower su Twitter! Vista la sua lineare (ma secondo i più incomprensibile) grammatica, il latino si rivelerebbe la lingua più efficiente nei moderni linguaggi della comunicazione telematica che sono incentrati sul “botta e risposta” e sull’immediatezza.
La caratteristica del latino è lo stile conciso ed essenziale che prende il nome di “brevitas“. Per tale ragione, il latino troverebbe in Twitter il veicolo più congeniale in quanto lingua sintetica e non analitica, ovvero che adotta uno stile asciutto: le declinazioni eliminano gli articoli e le preposizioni dal vocabolario e addirittura è possibile sottintendere il verbo! In questo modo, i filosofi e gli scrittori latini riuscivano ad esprimere il “massimo” significato attraverso il “minimo” significante. Aveva perciò ragione Seneca a dire “far intendere più di quanto si dica“!
Alcune forme tipiche della brevitas sono il costrutto dell’ablativo assoluto che permette di ridurre una frase ad un solo participio legato ad un nome (“Cesare duce” ovvero “sotto la guida di Cesare”) e il participio congiunto, un participio usato in funzione verbale (“Ne mentem quidem recte uti possum, cibo et potion completus” ovvero “Neppure la mente posso usare bene, se sono satollo di cibo e bevande”). Autori famosi per il loro “parlar semplice” (il “sermo simplex“) sono Orazio, la cui poetica è incentrata sulla disposizione precisa delle parole e di accostamenti inattesi, e Seneca, che è famoso per le sue “sententiae“, ovvero frasi lapidarie e fulminee costituite da parole antitetiche (“Vitam brevem esse, artem longam” ovvero “La vita è breve, l’arte è duratura”). Queste sententiae traevano spunto dal “vigor oratorius” che era un requisito essenziale per i retori di notevole fama. Inoltre, Seneca affermava la superiorità della lingua latina rispetto a quella greca, poiché dotata di “potentia” rispetto all’ellenica “gratia“. Una tale forma di concisione ha una lunga tradizione che passa dai sofisti fino a giungere alla syntomia (concisione) stoica: una sorta di “antiretorica” che si opponeva alla prolissità (“makrologia” letteralmente “grande parola”) dei sofisti.
E’ proprio Lucio Anneo Seneca, il precettore di Nerone, il filosofo stoico, il collega di Afranio Burro, ad essere il progenitore delle sententiae del moderno Twitter. Le frasi senecane persistono più facilmente nella memoria perché sono ideate con lo scopo di curare l’anima e piegare la volontà, come spiega il retore Quintiliano del I secolo: “Esse feriscono l’attenzione e in un colpo solo spesso la obbligano a cedere. Restano impresse per la loro stessa concisione e persuadono col diletto”. Negli esempi di sentenze che seguono si può notare l’estrema concisione latina rispetto alla traduzione romana: “vindica te tibi” ovvero “riprendi il possesso di te stesso” (13 lettere in latino, 28 lettere in italiano), “suus nemo est” ovvero “nessuno appartiene a se stesso”, letteralmente “nessuno è suo” (11 lettere in latino, 23 lettere in italiano), “protinus vive” ovvero “vivi senza aspettare” (11 lettere in latino, 18 lettere in italiano).
All’interno degli scritti d’autore, questi brevi moniti si disponevano generalmente all’inizio o alla fine di un ragionamento con una funzione perlopiù persuasiva. La loro incisività è tipica dei “dialoghi interiori” e ha avuto molti estimatori nei secoli successivi. La “filosofia dell’interiorità” di Seneca era basata sulla figura umana e sulla sua morale e ha riscosso notevole successo in autori come Agostino. In seguito, Petrarca si accostò alla tecnica del “dialogo interiore” in alcuni passi del “Canzoniere” e dell’epistolario, come il passo dell’ascesa al monte Ventoso, ma tale tecnica narrativa è ben evidente nel “Secretum” in cui Francesco parla con Agostino. Un altro autore che ha elaborato una tale filosofia fu Montaigne, la cui opera “descrive l’uomo, e in particolar modo se stesso”.
Oltre alla brevitas delle sententiae, la lingua latina è spesso caratterizzata da una simmetria formale che fa corrispondere più soggetti ad un unico verbo, più aggettivi ad un sostantivo e presenta parallelismi e identità di strutture sintattiche in frasi consecutive. Tale espediente è noto come “concinnitas“, ovvero l’ordine e la forma armoniosa. Lo stile di scrittura lapidario si ritrova anche alla lingua non letteraria. Si pensi al “cave canem” (“attenti al cane”) che conta 9 lettere in latino contro le 13 in italiano, oppure all’incisione ideata da Alfonso Traina, filologo classico e latinista, per una medaglia, “Tenebre scenti saeculo illuxit“, ovvero “rifulse come una luce in un mondo che stava sprofondando nelle tenebre”.
Uno stile simile a quello del latino è richiesto nelle moderne forme di comunicazione digitale. Si può dunque concludere che i 140 caratteri di Twitter non rappresentano di certo un ostacolo per il retore stoico che scrive sinteticamente.
Tra l’altro, ci siamo dimenticati che il latino si è insinuato nel linguaggio informatico: “computer” è sì una parola inglese ma deriva dal verbo latino computare (ovvero “calcolare”). La stessa chiocciola (@) non deriva direttamente dall’inglese “at”, ma una derivazione latina della preposizione “ad” (preposizione di moto a luogo) per indicare il server a cui è indirizzata la posta elettronica.
Inoltre, la notizia del secolo sulle dimissioni di Benedetto XVI è stata divulgata dalla vaticanista Giovanna Chirri che grazie alla conoscenza del latino ha bruciato le tappe così da annunciare la notizia. E’ infine interessante come Alfonso Traina, latinista italiano già precedentemente citato, metta in luce il paradosso della lingua latina: una lingua morta ma dalla potente espressività.
Un tweet in latino oggigiorno è poco raccomandato, a meno che non vogliate passare per scemi, ma c’è chi si illumina grazie alla citazione di un personaggio, di un episodio, di un detto di ieri, spesso in traduzione c’è da ammettere! E meno male, no?